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Si concretizza lo studio sull'ambroxolo come terapia neuroprotettiva

Dr. CiliaAmbroxolo nel Parkinson

 

In occasione del Convegno AIP precedente il Dr. Cilia aveva informato il pubblico che vi era l’intenzione di portare avanti uno studio clinico con l’obiettivo di valutare la sicurezza e l’efficacia di ambroxolo in pazienti affetti da malattia di Parkinson. A questo scopo aveva deciso di partecipare al bando della Ricerca Finalizzata anno 2018 del Ministero della Salute Italiano. La proposta è stata apprezzata dal Ministero, che ha deciso di finanziarlo (Progetto GR-2018-12366771).

Ambroxolo per potenziare il gene GBA-1

Ma perché uno studio su ambroxolo, un farmaco ‘da banco’ commercializzato come mucolitico, nella malattia di Parkinson? Perché l’ambroxolo è una sostanza che potenzia l’attività dell’enzima glucocerebrosidasi, che risulta ‘difettosa’ nei portatori di mutazioni del gene GBA-1.

Le mutazioni del gene GBA1 sono tra i più frequenti, essendo presenti nel 10% circa dei casi di malattia di Parkinson, sia familiare che non (definito ‘sporadico’). E’ emerso che questo gene codifica la proteina glucocerebrosidasi, che è un enzima in grado di scindere la glucosil-ceramide ed evitarne così l’accumulo, che si associa all’aumento dei livelli della proteina alfa-sinucleina (la quale, a sua volta, è la principale componente dei corpi di Lewy che si formano all’interno delle cellule nervose malate di Parkinson). Ricercatori del Centro Parkinson, grazie alla attività della Biobanca sponsorizzata dalla Fondazione Grigioni, hanno evidenziato che la gravità della malattia di Parkinson nei portatori di mutazione di questo gene dipende dal tipo di mutazione: le mutazioni non gravi che permettono ancora fino al 30% dell’attività dell’enzima presentano una progressione dei sintomi più lenta rispetto ai portatori di mutazioni gravi che determinano riduzioni dell’attività del gene a livelli inferiori al 15%. Pertanto, in base ai meccanismi noti sarebbe sufficiente correggere l’attività del gene GBA1 anche solo del 15% per rallentare la progressione della malattia. E’ quello che si spera di ottenere con l’utilizzo di ambroxolo, somministrato per via orale ad alta dose (circa 10 volte la dose utilizzata come mucolitico) per raggiungere i neuroni del sistema nervoso centrale coinvolti dal processo degenerativo.